lunedì 30 novembre 2015

Persone. Viaggio in Tamil Nadu, India, agosto 2015

Ricordo una delle ultime sere trascorse in India, dopo una speziatissima cena. Con alcuni amici, compagni di viaggio, ci siamo seduti sotto il lungo porticato bianco della casa di Tiruchirapalli, rigorosamente accerchiati da zampironi, a parlare del senso di questi viaggi.
C’era chi contestava quello che alcuni dicono sul fatto che questo tipo di esperienze ti cambino la vita, chi sosteneva che possono cambiarti la vita se della tua vita c’è effettivamente qualcosa da cambiare e, infine, chi affermava che, per forza, un viaggio in qualche modo, che tu te ne renda conto o meno, la vita te la cambia.
Io appartengo sicuramente all’ultimo filone di pensiero. Ogni viaggio che ho fatto in qualche modo penso mi abbia cambiata, questo è sicuramente tra quelli che lo hanno fatto con più forza.
È stato un viaggio di tre settimane in lungo e in largo per la regione indiana Tamil Nadu. Uno degli ultimi giorni, tracciando sulle cartine comprate a pochi cent per strada, ci siamo resi conto di aver percorso all'incirca 2500 km tra pulmini sgangherati e tuctuc gialli canarino.
2500 km scanditi da varie tappe alcune turistiche, altre no. Alternavamo templi coloratissimi stracolmi di gente e di odori a scuole di bambini con le più svariate disabilità. Musei e parchi archeologici a conventi, centri di medicina tradizionale e villaggi, ma se dovessi dire cosa mi torna in mente dell'India, risponderei di sicuro Fatimanagar.
Fatimanagar, un centro medico in cui vengono ricoverati e curati (con cura non intendo solo cure mediche, ma anche attenzioni, buon cibo, un lavoretto) persone affette da HIV, TBC e Lebbra.



Purtroppo il tempo trascorso con queste persone è stato davvero troppo poco, ma abbastanza per volersi bene. Un volersi bene nato dal semplice passare un po’ di tempo insieme, cercare di comunicare in tutti i modi possibili con gesti, facce e risate fragorose. Non scorderò mai la risata
collettiva di quando prima di partire ho bussato alla porta del dormitorio femminile, un gesto a loro completamente sconosciuto. Una risata che mi ha disarmata per la sua bellezza, donne che avevano perso le mani o un piede che ridevano di gusto per un gesto così semplice, mi ha spiazzata la bellezza della diversità, un gesto così semplice, diverso, fatto con il rispetto dovuto a chi ti apre la porta della sua realtà e carico di tutta la tristezza che si ha quando si saluta una persona cara che si sa che probabilmente non si rivedrà più.
Assurdo ricordarsi una risata in un contesto così?
Assurdo ricordarsi il tifo che mi facevano quando cercavo di vincere ad un gioco di cui non so tuttora le regole (che mi sono state accuratamente spiegate in Tamil)?


Assurdo ricordare il canto di preghiera di un’anziano che finalmente guarito stava per tornare a casa?
La risposta che mi sono data, e che può essere tranquillamente contraddetta, è no.
No perché questo è stato quello che mi ha permesso di stare insieme a queste donne, a queste persone, vivere serenamente e godere dello stare insieme; è quello che mi ha permesso di stare insieme a loro con tranquillità durante le medicazioni, perché dietro alla ferita c’era una persona, un nuovo amico.
Quello che mi dispiace molto è che vorrei che ognuno di noi scrivesse una riga di quello che gli è rimasto di più, perché sono certa che sarebbero tutte cose diverse. A me è rimasto questo, ma so di tanti che sono rimasti profondamente colpiti dall'esperienza nelle scuole, o con i bimbi malati di AIDS o dalla realtà dei villaggi.
Mi dispiace di non poter parlare di tutto, ma è davvero troppo, non ho ancora trovato la forza di rileggere il diario di viaggio, ci troverei troppe bombe… la malattia, la disabilità, il binomio vita-morte, il lutto, l’amicizia, l’amore, la meditazione, Dio e troppo altro.
Sono partita senza aspettative, avevo paura del caldo e di cosa avrei visto, sono tornata che non ho capito quasi nulla dell’India, o meglio, del Tamil Nadu.
So il nome di qualche divinità, ho provato a meditare, ho conosciuto e vissuto l’accoglienza.
L’accoglienza: non scorderò mai il giorno trascorso con gli anziani della “casa di riposo” della nostra casa a Tiruchirapalli.
Ci hanno accolti con un bicchiere di Fanta e uno sciallino bianco di cotone, ognuno ricamato con un motivo floreale diverso, li ho sentiti nonni. Tutti miei nonni, tutti nonni di tutti noi. Parlare di accoglienza è riduttivo, ci sono sentimenti che si possono solo vivere per essere capiti. Se penso a quei nonni che mi hanno fatto vedere le foto di famiglia, regalato caramelle e santini, mi hanno fatto sedere sul loro letto e mi hanno preso la mano per sentici vicini, come se non lo fossimo già
abbastanza; se penso a loro li penso con tutto il bene con cui si pensa ad un nonno. Loro come a quel signore sui settanta di cui non mi ricordo nemmeno il nome, troppo difficile, un signore dalla dolcezza estrema che vedeva i suoi piedi decomporsi lentamente, quel signore che ha occupato i miei pensieri per giorni, riempiendomi la testa di domande enormi.
A distanza di alcuni mesi ripenso all'India, mi è venuto un gran mal di testa, troppe emozioni, forse, in conclusione, ripensando un po’ a tutto, penso che quello che mi ha insegnato quest’esperienza è che non è necessario parlare la stessa lingua o conoscersi a fondo per volersi bene, quello che mi è rimasto è che per volersi bene basta guardarsi e riconoscersi uomini.

MariaChiara Filippi


1 commento:

  1. Maria-Chiara, lo leggo qui per la prima volta.. Molto bello!

    Alessandro

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