lunedì 30 ottobre 2017

Con i malati, da fratelli

La testimonianza di Enrica Salsi, missionaria laica in Madagascar

Il missionario fidei donum  (“dono di fede”) compie 60 anni. Nati dall’Enciclica Fidei Donum di Pio XII del 1957, i fidei donum sono sacerdoti, diaconi e  laici diocesani  inviati a realizzare un servizio temporaneo in un territorio di missione dove già esista una diocesi, con una convenzione (in genere triennale e rinnovabile) stipulata tra il vescovo che invia e quello che riceve.
Il Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium ha chiarito e illuminato ulteriormente la posizione dei fidei donum dicendo che la missionarietà non è più relegabile a un particolare carisma di singoli, ma fa parte della carta di identità del cristiano, del cosiddetto “ Popolo di Dio”, cioè di tutti i battezzati, in quanto vede la sua radice nel mistero di comunione della Trinità e nel Battesimo. Tutto il Popolo di Dio, nella diversità dei ministeri, ha dunque il dovere fondamentale di uscire da se stesso verso il mondo per annunciare il Regno di Dio.

Nei decenni seguenti la missione dei fidei donum è diventata una sorta di collaborazione tra chiese sorelle, di scambio di doni. Non più soltanto la necessità/urgenza di portare il Vangelo a chi non lo conosce, ma piuttosto il voler camminare insieme, da chiese sorelle per rafforzare l’unità e la testimonianza della Chiesa universale.


“Annunciare il Regno, dare la certezza che Dio è Padre buono e ti ama, soprattutto a chi ha tante buone ragioni per dubitarne…”. Ecco, più o meno pensavo questo quando nel 2010 ho chiesto al Centro Missionario di Reggio e al vescovo della diocesi di Farafangana, il permesso di rimanere con gli ammalati dell’Ospedale psichiatrico statale di Ambokala. 
Distribuzione alimenti all'Ospedale psichiatrico di Ambokala
Ero arrivata in Madagascar nel 2008 e nei primi due anni avevo lavorato con l’Ong RTM in un progetto sanitario. Nei weekend, insieme ad un’altra volontaria, andavo a fare visita a questo accampamento di  ammalati. Poi con una suora ed alcuni scouts abbiamo iniziato a festeggiare il Natale, la Pasqua e le feste più importanti in ospedale; ma mi sembrava poco, troppo poco perché la nostra piccola presenza potesse fare assaporare un po’ della predilezione che il nostro Padre ha per tutti i suoi figli. Così ho deciso di rimanere a tempo pieno qui. Insieme a Berthine, una serva della chiesa, come prima cosa abbiamo organizzato una mensa. Poi, dopo qualche anno, sono arrivate le suore trinitarie di Valence e ci siamo costituiti come “Aumônerie Catholique des malades d’Ambokala”, ottenendo un accordo di partenariato con il Ministero della Salute malgascio. 
Oggi il nostro servizio quotidiano è accogliere e sostenere gli ammalati e le famiglie che non hanno i mezzi per accedere alla cure, accompagnarli nella riabilitazione psichiatrica organizzando molteplici attività di ergoterapia e piccoli inserimenti lavorativi. Ma soprattutto vogliamo stare insieme agli ammalati. Da fratelli. Nessun maestro. Noi  missionari abbiamo certamente mezzi che ci permettono di dare un grande sostegno economico, ma è anzitutto lo stare insieme, l’ascoltarsi, il condividere i tanti momenti della giornata che dà un sapore di famiglia a chi è stato abbandonato e costituisce il primo passo per ritrovare fiducia nel proprio valore e percepire significativa la propria vita. Solo se c’è qualcuno che ti cerca, che ti aspetta e che ti ascolta può rinascere la fiducia in un Padre Buono che ti vuole bene… Questo è un linguaggio che tutti i dialetti e tutti i credo religiosi comprendono. Altrimenti parlare di Cristo rischia di rimanere un’astrazione.
In questi anni abbiamo accolto e siamo stati accolti da più di 700 ammalati. 
Quando un ammalato entra in ospedale, la dottoressa ha l’abitudine di chiedergli “quale è la tua fede?”, e non di rado c’è chi risponde “beh… la vostra!”, senza neanche sapere quale sia “la nostra”. Si mettono le mani avanti, tristemente abituati che per essere aiutati prima si deve fare la “tessera” da cristiano o da musulmano… Allora riflettevo con la suora quanto sarebbe invece bello che accadesse il contrario: che dall’accoglienza nella libertà e dall’amore che noi dimostriamo, la gente uscendo dall’ospedale pensasse: anche io voglio seguire Cristo.
Una sera, tornando  a piedi dall’ospedale, ho incontrato Olga, una donna sui 25 anni che insieme ai due figli più piccoli, porgeva la mano per chiedere l’elemosina. Mi ha colpito perché tutti i malgasci che conosco hanno paura del buio. “Non hai paura, in giro a quest’ora?” le avevo chiesto.” E tu, allora?”mi aveva risposto in tono di sfida. “Sei tu che hai qualcosa da farti rubare, che dovresti avere paura... Io tanto non ho niente”.  Nel tempo siamo diventate “amiche”:  l’ho aiutata ad aprire un banchetto di verdure, poi di dolcetti, ma nulla è mai durato più di un mesetto. Le affidavamo qualche lavoretto saltuario,  ma lei  ha sempre continuato anche il mestiere di elemosinante. Abbiamo fatto spettacolari discussioni su quelli che lei chiamava: “ny zon’ny mpanagataka” cioè “ i diritti delle elemosinanti”. Nella nostra “amicizia” mi raccontava anche un sacco di balle. Per ben due volte mi ha convinto ad aiutarla a trasferirsi a Tamatave per poi convincere l’autista, una volta fuori città, a farsi restituire i soldi e tornare a casa  a piedi con i quattro figli. Me la ritrovavo sempre lì, senza riuscire a cambiarla, né ad aiutarla davvero… Mi arrabbiavo, ma poi ricominciavo ad invitarla a mangiare con noi… 
Un giorno Olga è arrivata in lacrime e mi ha raccontato che suo figlio minore era stato rapito da dei trafficanti di bambini, che le avevano chiesto un riscatto di 80.000 ariary (equivalenti a circa 30 € al tempo). Doveva sotterrare i quattrini presso le pile di un ponte sulla strada Nazionale  a sud della citta. Mi ha portato addirittura la lettera che le era stata recapitata e ha chiamato gli altri figli a testimoniare la sua versione. E’ rimasta tutta la notte sotto casa nostra. Le ho proposto di andare insieme dalla polizia, ma non ha accettato e ha inscenato anche un malore. Sapevo che la storia era inverosimile e il mio cuore era molto ferito. Dopo due giorni ha ammesso di aver inventato tutto per i soldi. Poi se n’è andata, consapevole di aver passato davvero il segno e tradito del tutto la mia fiducia. 
Quando l’ho rivista, qualche mese dopo, era seminascosta nel vialetto di casa. Con la testa bassa mi ha sussurrato un “mi dispiace, mi vergogno per quello che ho fatto”. Il suo figlio maggiore era ammalato e cercava aiuto…  ma non pensava di ottenerlo. Quando ha capito che l’avrei aiutata e anche riaccolta a fare qualche lavoretto era incredula e prima di andare mi ha guardato con serietà e mi ha detto una frase, che ancora ricordo. Tradotta  letteralmente faceva così: “Fa pensare e fa meraviglia il perdono e la pazienza del vostro Dio”.
Il missionario laico fidei donum è uno che ama stare  con la gente attraverso il suo lavoro quotidiano, nei momenti  di riposo, che non ha fretta di correre nei suoi appartamenti, ma piuttosto accoglie l’invito in casa d’altri, si toglie le ciabatte sulla soglia e accetta di sentirsi straniero per diventare fratello. 
Da missionaria laica donna, so di essere privilegiata perché già di partenza faccio parte degli ultimi all’interno della chiesa. Lontano dalle posizioni di potere, parti in vantaggio per vivere da sorella con gli ultimi. 

Enrica Salsi 

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